AGGIORNAMENTO MERCATI: quando i dati economici migliorano e i mercati si agitano…



Una caratteristica peculiare della fase espansiva di questo ciclo economico è stata la combinazione di crescita lenta e rischi ricorrenti di deflazione. A causa del vuoto di domanda causato dalla crisi finanziaria globale e delle risposte disomogenee sul piano della politica fiscale, l’attuale espansione congiunturale è la più debole mai registrata dalla seconda guerra mondiale.
Nella fase iniziale della ripresa, era opportuno che le banche centrali prendessero le redini della situazione. Con la progressiva riduzione dell’indebitamento e la graduale chiusura degli «output gap», si è poi reso necessario dare inizio al processo di normalizzazione delle politiche monetarie. Ma, dato che la sostenibilità della crescita non era in pericolo e l’inflazione rimaneva contenuta, gli istituti di emissione hanno avuto a disposizione un ampio margine per ritirare gli stimoli monetari a ritmo molto lento.
L’ultima virata espansiva delle politiche governative mette ora le banche centrali davanti a un dilemma. Il massiccio piano di stimolo fiscale varato negli Stati Uniti giunge in un momento in cui l’economia mondiale registra già la crescita più sostenuta dal 2011. La riforma tributaria approvata a dicembre incrementa il debito pubblico americano di 1500 miliardi di dollari nell'arco di 10 anni; l'ultimo accordo sul budget prevede a sua volta un forte aumento della spesa pubblica, pari a 160 miliardi di dollari nel solo esercizio fiscale 2019. Nel complesso, queste misure dovrebbero portare il deficit di bilancio sopra 1000 miliardi di dollari l’anno. Secondo le attuali proiezioni dell’Office of Management and Budget, le finanze pubbliche statunitensi saranno in disavanzo ogni anno da qui al 2027. È quindi possibile che la politica di bilancio espansiva spinga al rialzo l’inflazione e costringa la Federal Reserve (Fed) ad attuare una stretta monetaria sempre più aggressiva. Diversamente dalle precedenti correzioni registrate durante l’attuale rialzo forte e prolungato dei mercati azionari, il ribasso di febbraio non è stato innescato da un potenziale indebolimento congiunturale, tensioni politiche o problemi geopolitici, bensì dai timori di surriscaldamento dell’economia.
Pertanto, come già accennato in altre nostre pubblicazioni passate, il miglioramento dei dati economici e le prospettive di aumenti salariali e dei consumi, riflettendosi sull'inflazione, generano inevitabili turbolenze sui corsi azionari derivanti da un ridimensionamento dei bilanci, specie quelli più esposti al debito.
E’ un passaggio obbligato, da gestire con delicatezza da parte degli istituti centrali in primo luogo, ma anche sensibile a quello che sarà l’effetto sulla crescita globale. 
Alcune ulteriori riflessioni sull'inflazione sono però doverose. Essendo l’elemento principale su cui si stanno concentrando le strategie future, non è detto che nel breve i rendimenti obbligazionari continuino ad aumentare. Per ora infatti si sono mossi in base ad aspettative di rialzo dei tassi (e dell’inflazione attesa) piuttosto che a manovre reali. Il ritmo di crescita dell’inflazione però non è così vertiginoso né totalmente scontato. Il CPI core è cresciuto dello 0,3% (le attese erano per uno 0.2%) rispetto al dato grezzo che è aumentato dello 0,5% (+0.3% le aspettative). Anche l’andamento dei salari negli USA calati in gennaio dello 0,2% ha lasciato intendere che i prossimi numeri dei prezzi al consumo potrebbero essere meno surriscaldati di quanto osservato recentemente.
In conclusione gli stimoli fiscali provenienti dalla riforma tributaria in questa fase tardiva del ciclo economico complicano l’approccio della Fed nei confronti della politica monetaria. Tuttavia se l’inasprimento monetario avverrà in modo graduale e la crescita globale procederà a ritmi regolari e convincenti, i mercati pur muovendosi con maggior volatilità avranno ulteriori spazi di crescita.


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