AGGIORNAMENTO MERCATI: il cambiamento del paradigma dell'investitore

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Il 2018 si è chiuso come tutti ben sappiamo con un risultato disastroso che ha coinvolto tutte ma proprio tutte le asset class. Ha fatto eccezione per noi europei solo il dollaro, che personalmente non ritengo corretto assimilarlo ad un asset class, essendo solo un’espressione valutaria di quest’ultime.
Lamentare contrazioni dei prezzi o constatare semplicemente performance di portafoglio negative di 5 o 6 punti percentuali nello scorso anno è purtroppo del tutto normale. (tabella indici - fonte Domenico Borrello Banca Generali Private)
La logica in questi giorni sta spingendo gli esperti alla cautela nei portafogli, ma se andiamo ad osservare il comportamento dei comparti quotati storicamente più “tranquilli” non possiamo di certo  essere soddisfatti delle loro performance. Portafogli interamente obbligazionari nel 2018 hanno subito flessioni tra i 2 e i 4 punti percentuali al lordo dei costi.
Possiamo ricercare motivazioni di varia natura, dallo scricchiolio della globalizzazione alla Brexit, dalla sempre meno sostenibilità del debito aggregato mondiale agli strascichi dell’austerity europea… tutto vero. Nodi scomodi fin quando soluzioni politiche non ne facciano intravedere il loro discioglimento.
In tutta onestà il punto, sicuramente meno dibattuto per il suo indubbio minor impatto mediatico, è con ogni probabilità un altro. Il mercato fino al principio dell’anno scorso ha letteralmente dormito per anni. L’unico motore, il driver assoluto per tutti gli operatori, era rappresentato dalla Banche Centrali. Più zoppicavano i dati macroeconomici più i mercati festeggiavano per le imminenti iniezioni di liquidità. Per chi fa il nostro mestiere diventa un cambio di paradigma notevole. A questo punto quale è il senso nell’analisi di bilancio per fondare le scelte dell’asset allocation se anche i meno virtuosi vengono “salvati” dal sistema? Perciò tutti appesi ai discorsi dei banchieri centrali, alle minute della Fed o qualche battuta davanti ad un caffè di Draghi o della Yellen.
Bene cosa è avvenuto nel 2018? Semplicemente la consapevolezza (o paura) che il mercato torni a fare il mercato. Mark to market.
Tradotto in termini finanziari ciò significa volatilità. Non solo lato equity ma anche (e soprattutto in termini relativi) lato bond, penalizzati dal drenaggio di liquidità delle banche centrali.
La frenata di tali discese in questi primi giorni del 2019 guarda caso è coincisa col rallentamento di passo della Fed nel rialzo dei tassi, dopo aver constatato quanto poco galoppi l’inflazione rispetto alle previsioni dell’anno scorso.
E dopo l’analisi delle cause quali le possibili soluzioni? Intanto la volatilità, facendo un parallelismo sciistico, è percepibile come la ripidità di un pendio innevato, più ci si spaventa e si arretra peggio lo si affronta. La paura è perciò il peggior nemico in queste circostanze. Se si torna ai fondamentali di bilancio o a settori che offrano prospettive, come spesso accennato in precedenti articoli del blog, il timore non ha ragion d’essere, la pazienza e il tempo faranno il resto.
Cambia anche il paradigma dell’investitore quindi, che si trovava da anni a mitigare i propri timori combattendo la volatilità mediante portafogli zeppi di obbligazioni. Azioni o obbligazioni? Oggi rischia di far poca differenza se non si sta attenti all’emittente. Panieri di titoli obbligazionari che incorporino futuri default o ristrutturazioni di debito potrebbero sottoperformare nel medio periodo portafogli azionari anche in momenti di pronunciata turbolenza dei mercati.
La volatilità è vittima di oscillazioni diffuse e correlate dei mercati, non necessariamente un indicatore di rischio assoluto o di preoccupazioni fondate. Va analizzata, portafoglio per portafoglio, ed eventualmente bonificata, ma sarà sempre più presente e pertanto da tollerare.
Fatta salda questa premessa fondamentale gli scenari che si profilano sono legati ad un duplice filo.
In assenza di “interventi” esogeni di natura polico/economica la strada sembrerebbe più critica giacché siamo alla fine di un ciclo espansivo (per lo più monetario) che segna inesorabilmente livelli di crescita sempre più contenuti, dove il debito aggregato mondiale, dai Paesi emergenti a quelli sviluppati, grava come un macigno. Crescita bassa, inflazione striminzita, debito elevato, ritiro di base monetaria dal sistema…non vediamo onestamente come i mercati possano reagire euforicamente. Detto ciò se da un lato gli istituti centrali hanno ormai esaurito le cartucce, dall’altro  il coniglio dal cilindro potrebbe essere estratto da paesi che non hanno ad oggi ancora proposto riforme fiscali o politiche economiche accomodanti. Mi riferisco in particolar modo ad Europa e Cina. Un ipotetico intervento di carattere fiscale che sospinga la fiducia sulla crescita delle 2 macroaree riporterebbe probabilmente il sorriso ai mercati. Spazio di manovra (soprattutto per il colosso asiatico) ce n’è, e non solo dal lato fiscale ma anche sulle manovre monetarie .
In Europa le recenti dichiarazioni di Juncker in merito agli scarsi risultati legati all’austerity di bilancio applicata nell’UE in questi anni rappresentano una riflessione a cui non siamo sinceramente abituati. Complice probabilmente un atteggiamento degli Stati membri sempre meno “globale”, capace di spaventare le forze europeiste foriere da anni ormai di rigore economico che si traduce in pressione fiscale. Non è da escludere pertanto che si tratti solo di campagna elettorale viste le imminenti elezioni, resta il fatto che l’appello di Draghi secondo il quale anche i governi debbano fare la loro parte nell’obiettivo di rilanciare la crescita ad oggi resta ancora piuttosto disatteso e il tempo a disposizione è sempre meno.
Pertanto la cautela nel 2019 è d’obbligo, la sfiducia crediamo ancora prematura.



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