FOCUS: davvero la FED è responsabile dei recenti storni?
In questi giorni ci si sta interrogando sulle cause di un ipotetico storno dei mercati dopo il rally degli ultimi 2 mesi. E sul banco degli imputati ci è finita la FED a seguito del suo ultimo discorso della scorsa settimana. Le più grandi testate giornalistiche internazionali sollevavano i timori di una recessione o quantomeno di una assai lenta ripresa scossi dai timori di Powell sui dati dell’occupazione e le tempistiche ipotizzate per il ritorno alla piena occupazione e produttività.
Gli shortisti di tutto il mondo a questo punto hanno ripreso coraggio e il mercato USA (ma lo stesso un po’ ovunque) ha chiuso la seduta registrando un crollo di 6 punti percentuali.
Le domande che sono emerse da questo ritracciamento pesante hanno proprio coinvolto le dichiarazioni del Governatore della Banca Centrale americana e a questo punto sorge spontaneo analizzare bene quanto dichiarato e soprattutto se non avesse dovuto realmente sostenere maggiormente i mercati con qualsivoglia altra misura straordinaria.
Per meglio analizzare le ultime dichiarazioni è fondamentale a nostro avviso ritornare su quelle fatte pre-Covid a dicembre 2019, anche solo per comprendere se la linea della Fed presenta degli scollamenti forti in seguito alla pandemia.
Ciò che risulta inequivocabilmente chiaro è che le priorità assolute sono il controllo dell’occupazione più che dell’inflazione. La regola secondo cui Philips costruisce la sua curva, e per la quale ad una decrescente disoccupazione si possono verificare pericolosi effetti inflattivi, è più argomento di didattica che non di reale minaccia. La crescita viveva già notevoli difficoltà prima dell’esplosione del virus e il rischio inflattivo stava in fondo alla lista delle “preoccupazioni” della Fed già da tempo. Il nodo cruciale per la salute economica americana sta principalmente nella piena occupazione. Solo attraverso il totale impiego della potenziale forza lavoro si potrà sviluppare la crescita della produttività del Paese e la cosiddetta “esperienza del capitale umano” sarà una variabile utile per la crescita del Paese che è e resterà bassa assieme all’inflazione e di conseguenza ai tassi. Questa è l’analisi (peraltro di un realismo cristallino) di Powell sull’economia domestica.
Istituisce inoltre un range di inflazione attesa intorno al 2% che debba essere persistente (quindi rilevato più volte e stabile nel tempo) e non il semplice raggiungimento di un tasso inflattivo pari al 2%, per giustificare un ipotetico aumento dei tassi.
Premesso ciò, dove quindi la Fed avrebbe “stupito” nelle recenti dichiarazioni? Quale concetto rimasto inespresso si sarebbe dovuto aspettare il mercato?
Se andiamo a riprendere il discorso del 10 giugno le priorità restano le stesse di prima con la consapevolezza chiaramente di essere pronti a scontrarsi con una lenta ripartenza e un dato dis-occupazionale del 13% da abbattere al più presto. Come può un Governatore della più importante Banca Centrale del mondo non dichiarare i suoi timori di fronte ad uno shock simile? Il mercato del lavoro avrà i suoi tempi, ma è lì che ci si deve concentrare e per farlo la FED è “ready to use tools to do whatever we can and for long as it takes”. Così come lo saranno gli stimoli fiscali di Trump ed eventualmente del suo successore.
Inflazione e tassi? Va da sé che restino prossimi allo zero. Il sostegno all’occupazione e alla domanda aggregata sono il primo tassello su cui ragionare e le forze che verranno dispiegate saranno imponenti finché non si raggiungeranno gli obiettivi della piena occupazione per evitare uno scivolone in professionalità e competitività.
Dove la Fed quindi ha fallito? Onestamente da nessuna parte.
La Fed c’è! Parafrasando Guido Meda, il noto cronista motociclistico.
E vien da pensare francamente che per una volta sia andata anche oltre il proprio mandato di stabilizzatore della base monetaria e dei prezzi, ponendo l’accento sull’importanza di adeguare i salari e coinvolgere nel mondo del lavoro le categorie sociali più marginali. Una Fed attenta alle diseguaglianze sociali e ai rischi derivanti dalla depressione della domanda nel tempo e del potere d’acquisto è piuttosto insolito da vedere.
Quindi come vanno visti i draw-down dei giorni scorsi (in buona parte peraltro già recuperati)?
In estrema sintesi come la manifestazione di una volatilità sempre vigile accentuata in parte dalle strategie automatiche e dalla mole di derivati che fanno scattare delle prese di profitto molto profonde a seguito di stress grafici importanti.
Il concetto di fondo che però ci premeva esprimere in questo post non è tanto quello di ribadire la superficialità intellettuale con la quale vengono confezionati gli articoli economici (anche di importanti testate), ma di rimarcare gli effetti che politiche monetarie così fortemente attente alla liquidità del sistema finanziario producono sui mercati. Nella speranza che tali iniziative coinvolgano al più presto l’economia e il mercato del lavoro, ciò che sicuramente non mancherà saranno le ripercussioni sull’equity. Se l’indice Russel (PMI americane) potrà fare fatica almeno inizialmente, di certo l’S&P 500 beneficerà della leva finanziaria. Perciò volatilità sì se persiste incertezza, ma...DON’T FIGHT THE FED!
Gli shortisti di tutto il mondo a questo punto hanno ripreso coraggio e il mercato USA (ma lo stesso un po’ ovunque) ha chiuso la seduta registrando un crollo di 6 punti percentuali.
Le domande che sono emerse da questo ritracciamento pesante hanno proprio coinvolto le dichiarazioni del Governatore della Banca Centrale americana e a questo punto sorge spontaneo analizzare bene quanto dichiarato e soprattutto se non avesse dovuto realmente sostenere maggiormente i mercati con qualsivoglia altra misura straordinaria.
Per meglio analizzare le ultime dichiarazioni è fondamentale a nostro avviso ritornare su quelle fatte pre-Covid a dicembre 2019, anche solo per comprendere se la linea della Fed presenta degli scollamenti forti in seguito alla pandemia.
Ciò che risulta inequivocabilmente chiaro è che le priorità assolute sono il controllo dell’occupazione più che dell’inflazione. La regola secondo cui Philips costruisce la sua curva, e per la quale ad una decrescente disoccupazione si possono verificare pericolosi effetti inflattivi, è più argomento di didattica che non di reale minaccia. La crescita viveva già notevoli difficoltà prima dell’esplosione del virus e il rischio inflattivo stava in fondo alla lista delle “preoccupazioni” della Fed già da tempo. Il nodo cruciale per la salute economica americana sta principalmente nella piena occupazione. Solo attraverso il totale impiego della potenziale forza lavoro si potrà sviluppare la crescita della produttività del Paese e la cosiddetta “esperienza del capitale umano” sarà una variabile utile per la crescita del Paese che è e resterà bassa assieme all’inflazione e di conseguenza ai tassi. Questa è l’analisi (peraltro di un realismo cristallino) di Powell sull’economia domestica.
Istituisce inoltre un range di inflazione attesa intorno al 2% che debba essere persistente (quindi rilevato più volte e stabile nel tempo) e non il semplice raggiungimento di un tasso inflattivo pari al 2%, per giustificare un ipotetico aumento dei tassi.
Premesso ciò, dove quindi la Fed avrebbe “stupito” nelle recenti dichiarazioni? Quale concetto rimasto inespresso si sarebbe dovuto aspettare il mercato?
Se andiamo a riprendere il discorso del 10 giugno le priorità restano le stesse di prima con la consapevolezza chiaramente di essere pronti a scontrarsi con una lenta ripartenza e un dato dis-occupazionale del 13% da abbattere al più presto. Come può un Governatore della più importante Banca Centrale del mondo non dichiarare i suoi timori di fronte ad uno shock simile? Il mercato del lavoro avrà i suoi tempi, ma è lì che ci si deve concentrare e per farlo la FED è “ready to use tools to do whatever we can and for long as it takes”. Così come lo saranno gli stimoli fiscali di Trump ed eventualmente del suo successore.
Inflazione e tassi? Va da sé che restino prossimi allo zero. Il sostegno all’occupazione e alla domanda aggregata sono il primo tassello su cui ragionare e le forze che verranno dispiegate saranno imponenti finché non si raggiungeranno gli obiettivi della piena occupazione per evitare uno scivolone in professionalità e competitività.
Dove la Fed quindi ha fallito? Onestamente da nessuna parte.
La Fed c’è! Parafrasando Guido Meda, il noto cronista motociclistico.
E vien da pensare francamente che per una volta sia andata anche oltre il proprio mandato di stabilizzatore della base monetaria e dei prezzi, ponendo l’accento sull’importanza di adeguare i salari e coinvolgere nel mondo del lavoro le categorie sociali più marginali. Una Fed attenta alle diseguaglianze sociali e ai rischi derivanti dalla depressione della domanda nel tempo e del potere d’acquisto è piuttosto insolito da vedere.
Quindi come vanno visti i draw-down dei giorni scorsi (in buona parte peraltro già recuperati)?
In estrema sintesi come la manifestazione di una volatilità sempre vigile accentuata in parte dalle strategie automatiche e dalla mole di derivati che fanno scattare delle prese di profitto molto profonde a seguito di stress grafici importanti.
Il concetto di fondo che però ci premeva esprimere in questo post non è tanto quello di ribadire la superficialità intellettuale con la quale vengono confezionati gli articoli economici (anche di importanti testate), ma di rimarcare gli effetti che politiche monetarie così fortemente attente alla liquidità del sistema finanziario producono sui mercati. Nella speranza che tali iniziative coinvolgano al più presto l’economia e il mercato del lavoro, ciò che sicuramente non mancherà saranno le ripercussioni sull’equity. Se l’indice Russel (PMI americane) potrà fare fatica almeno inizialmente, di certo l’S&P 500 beneficerà della leva finanziaria. Perciò volatilità sì se persiste incertezza, ma...DON’T FIGHT THE FED!