AGGIORNAMENTO MERCATI: rischi e conseguenze della svolta epocale del quantitative tightening
Da dove stiamo arrivando intanto?
In una parola potremmo dire “sostegno”. Da quando il sistema finanziario ha iniziato a scricchiolare nel 2008 per gravi colpe dell’imprenditoria bancaria occidentale, si è deciso di non punire i responsabili e allo stesso tempo di accontentare un po’ tutti inondando il sistema di quella liquidità necessaria a ripulire i bilanci bancari da un lato e a garantire una base monetaria sufficiente a non inchiodare e compromettere nel breve l’economia.
Missione compiuta, ma con quali conseguenze?
Per prima cosa l’economia si è piacevolmente abituata alla disponibilità di liquidità. A queste condizioni il debito non ha fatto altro che crescere avendo la garanzia del famoso “supporto” delle Banche Centrali. Programmi di acquisti di bond si sono susseguiti in questi anni con una frequenza incessante, portando Stati, aziende e privati a reperire capitali a costi irrisori.
L’idea che questa fosse una situazione transitoria è sempre e solo rimasta un’idea. Ai timidi tentativi di rialzo dei tassi e ritorno alla cosiddetta normalità, le reazioni del mercato sono sempre state nervose, un po’ come il tossicodipendente senza la sua irrinunciabile dose quotidiana. L’area di confort in cui mercati ed economia si sono ritrovati per anni ha arrecato distorsioni sia sui prezzi, che sugli utili societari, per non parlare della montagna di debito che tale situazione ha contribuito ad accumulare.
Ora che il dato inflattivo è schizzato un po’ ovunque si torna a parlare (forse come non mai) della necessità di un quantitative tightening, ossia di rialzo dei tassi e di ridimensionamento della base monetaria. In una parola è ora che il mercato cominci a cavarsela sempre più da solo.
Il dilemma però è che si riesca a convivere con un’inflazione elevata, tassi ufficiali allineati all’inflazione e stabili e debito di dimensioni sproporzionate. La sostenibilità di questo scenario può solo essere mantenuta in equilibrio da una robusta crescita e da una altrettanto convincente domanda aggregata.
Il timore quindi di un aumento troppo repentino dei tassi come contraltare di un movimento al rialzo dell’inflazione è più che lecito.
Se adeguati incrementi di reddito pro-capite dovuti ad aumenti salariali o a politiche di redistribuzione non si verificheranno in misura necessaria a sopportare il maggior peso del costo del denaro e del debito, ne pagheremo amare conseguenze. E questo lo sanno in primis i banchieri centrali, i quali sanno che per frenare l’erosione da inflazione corrono il rischio di inceppare le politiche fiscali espansive soprattutto dei Paesi maggiormente indebitati.
Il punto è che sebbene ci dispiaccia crederlo, questa non è un’inflazione sana. Non è un’inflazione da eccesso di ricchezza privata; questo perché non deriva da aumento di disponibilità finanziaria collettiva (e duratura), ma da distorsioni momentanee dell’offerta (che peraltro pesano sulle tasche dei privati principalmente).
Non è un caso che lo stesso mercato intraveda uno scenario inflattivo più di breve periodo che strutturale. A dircelo è il flattening della yield curve, ossia una curva dei rendimenti obbligazionari sostanzialmente piatta. Ma la cosa apparentemente bizzarra è che nonostante un’economia USA in piena occupazione e sostanzialmente in salute vi è in atto addirittura una contrazione dei rendimenti del decennale americano rispetto al biennale (vd grafico sotto)
Vale a dire che il mercato non scommette su una crescita dei tassi nel lungo periodo
E questo perché? Perché NON SE LO PUO’ PERMETTERE.
Perciò la provocazione contro tendenza che vogliamo far emergere dal nostro blog oggi è: aspettiamoci dati inflattivi più contenuti e diversi dietro-front degli istituti centrali, attori sempre più cruciali e di primo piano sullo scenario economico globale, ammiragli di un transatlantico sempre più pesante ed ingovernabile, consci soprattutto dell’impossibilità di tornare indietro e della pericolosità nell’abbandonare il timone…
Andiamoci piano perciò con le obbligazioni indicizzate all’inflazione, o perlomeno non illudiamoci di aver trovato l’asset al riparo da sorprese. Il rendimento su questi titoli è già arrivato a fine corsa a nostro avviso. Il mondo dei bond, manco a dirlo continua a seminare più perplessità che opportunità.
Se davvero i tassi dovessero salire, per quelli a reddito fisso sarebbe un bagno di sangue. Se invece i tassi (così come l’inflazione) terminassero la loro ascesa a quel punto, visti gli spread attuali, ci dovremmo nuovamente (ed eternamente mi verrebbe da dire) accontentare degli striminziti rendimenti che ben conosciamo.
Quello obbligazionario resta un asset pericoloso nella peggiore delle ipotesi, inchiodato e tutt’altro che attraente nella migliore.
Concludendo il mercato oggi dovrebbe scontare 4/5 rialzi dei tassi della Fed da 0.25 l’uno, tutti entro fine 2022.
Anche l’azionario porta i segni di queste previsioni e probabilmente a beneficiarne ancora nel breve saranno settori come quello finanziario e quello energetico. Detto ciò le opportunità restano su realtà più promettenti che hanno subito fortemente il cambio di rotta della Fed, ma sulle quali è bene tenere l’occhio vigile in particolar modo quando i prezzi offrono rare opportunità di acquisto...