AGGIORNAMENTO MERCATI: il peso monetario sui mercati
Ieri spaventava la robusta inflazione americana, l’altro ieri non hanno convinto le parole della Lagarde, oggi lo spettro del Covid in Cina nuovamente in auge. La raffica di notizie che schiacciano i mercati si intensifica. Ma la sostanza qual è? Esiste un filo conduttore o sono tutti “trigger” decorrelati. Apparentemente impattano in modo e su mercati diversi; la sostanza però, se proviamo a toglierci gli occhiali da lettura e a disintossicarci dalle miriadi di pagine e informazioni finanziarie che ci travolgono quotidianamente, è che un filo conduttore esiste ed è ormai il vero driver dei mercati da più di un decennio. Si chiama Banca Centrale o Fed, volendo semplificare.
Aggiungo liquidità e i prezzi salgono, la tolgo e tutto scende.
L’equilibrio monetario però non è un punto fisso, ma spesso un obiettivo da cui ci si può scostare sensibilmente e la misura di tale distanza si chiama inflazione.
Ha senso quindi accanirsi sui discorsi della Lagarde e sulle errate previsioni inflattive dello scorso anno o magari avrebbe più senso comprendere la reale necessità di intervento sui mercati da parte degli istituti centrali verificatosi negli anni precedenti?
Quello che è certo è che se la liquidità immessa nell’ultimo decennio si fosse trasmessa in modo strutturale e proficuo sull’economia non dovremmo più di tanto preoccuparci. Quante volte abbiamo sentito Draghi affermare che la palla ora era in mano ai Governi, che avevano il compito di irrobustire la crescita con iniziative e investimenti mirati a creare posti di lavoro e condizioni produttive nazionali stabili e durature.
Analizzando la realtà a noi più vicina, strutturali riforme del lavoro e investimenti per il rilancio di settori strategici del nostro Paese (a parte qualche bonus fiscale di dubbia utilità o redditi a fondo perduto in assenza di controllo) non se ne sono visti purtroppo…
Questo quadretto fa tornare sugli scudi un argomento per noi ormai ciclico denominato “spread”. E la normalizzazione delle politiche monetarie è destinata a colpire maggiormente, come sempre, gli ultimi della classe. Politica economica pluriennale da perseguire su dati e obiettivi oggettivi che ben si innestino in base alle caratteristiche di un Paese (come il turismo, quality food, e molte altre storiche eccellenze italiane da sviluppare), piano di sburocratizzazione e digitalizzazione, classi politiche preparate e concrete, questi sono i temi che avremmo dovuto vedere viaggiare in parallelo al sostegno monetario.
Ma incentivare la domanda attraverso l’abuso del debito non è solo un problema di casa nostra, anzi è una prassi ormai consolidata soprattutto negli USA, i quali a ben ragione ora sanno a quali rischi va incontro l’economia se i tassi si spingeranno troppo in alto. E l’ultimo dato di nuovo sopra le stime (+8,6% anno su anno) non dà scampo alla FED sulla prossima escalation di aumenti dei tassi.
Perché la priorità su tutto (crescita compresa) è l’inflazione? Purtroppo la spiegazione è molto semplice. L’inflazione è una variabile molto difficile da controllare se lasciata a se stessa. Tornare indietro è spesso impossibile se non a caro prezzo (fallimenti, depressione della domanda e dei consumi, insostenibilità dei prestiti privati e corporate sono solo alcuni degli effetti inevitabili).
Le vie per combattere l’inflazione in fin dei conti sono solo due: una è di tipo “normativo” e trattasi di calmierare i prezzi attraverso imposizioni oltreché sostegni pubblici, una via non facilmente percorribile soprattutto in Paesi democratici, anche perché spesso ci sono categorie che tendono a rimetterci più di altre; l’altra resta in capo alle Banche centrali che altro non fanno che “raffreddare” l’economia togliendo liquidità e alzando i tassi. Insomma accompagnandoci con più o meno dolcezza verso la recessione.
Dove termina perciò il tunnel che abbiamo imboccato? Quando si ricomincerà a vedere la luce?
Questa è la seconda parte del film. Di cui si conosce l’epilogo, e cioè che le Banche Centrali ricominceranno a stampare e lo faranno a seguito di dati decisamente più “freddi” sull’inflazione, ma di cui però ignoriamo la trama nei suoi dettagli. Quali i fenomeni recessivi che più impatteranno nei prossimi mesi possiamo solo augurarci che non siano troppo deprimenti.
Un ruolo di sostegno lo dovranno giocare i Governi indubbiamente, evitando da un lato di stimolare troppo la domanda, ma anche che tracolli totalmente. Ed è qui che nascono le perplessità più grandi. Cosa vuol dire “atterraggio morbido”?
Il costo della vita sale, il debito è più oneroso, le banche in un contesto economico più deteriorato faranno molta più fatica a concedere prestiti, le società contrarranno i loro margini di fronte ai maggior costi e minori ricavi prospettici, il tutto senza un repentino adeguamento salariale. In uno scenario di questo tipo si prospetta più un atterraggio di fortuna che morbido…
A nutrire forti dubbi sulle sorti economiche dei prossimi mesi, oltre ai mercati, ci dà un chiaro segnale la curva dei rendimenti americani. In questo momento il biennale del treasury ha rendimento pari al decennale. Il rendimento del 3.2% regna ad ogni scadenza, sconto temporale nullo, piattume assoluto.
La ragione di questo flatening in procinto di inversione non risiede solo in un’ipotesi concreta di recessione ma è sintomatico di quanto sia insostenibile nel lungo termine un’inflazione a questi livelli.
Interessi elevati su 230.000 c.a. miliardi di debito globale sottraggono troppe risorse al sistema economico.
Per non parlare della sostenibilità del debito emergente che di fronte ad un dollaro sempre più alle stelle non promette nulla di buono.
Scongiurando quindi lo scenario secondo il quale le Banche Centrali non intendano più supportare il debito e quindi l’accettazione di default diffusi, possiamo solo sperare in una rapida contrazione della dinamica dei prezzi che lasci spazio ad un nuovo sostegno monetario. Nel breve però restiamo cauti nell’individuare un’inversione di tendenza dei mercati azionari, più vicini al floor ci paiono invece quelli obbligazionari, specialmente gli investment grade. Finora i principali detrattori della ricchezza investita dei risparmiatori.